Si ricomincia sempre con un temporale

Tanti anni addietro ho iniziato a scrivere su internet, c’erano ancora i modem 56k col loro rumore caratteristico, c’erano ancora i computer fissi col monitor ingombrante, sembra due vite fa. Ho iniziato a scrivere, dicevo, su un servizio di blog che si chiamava giovani.it. Ma prima di allora avevo iniziato a scrivere su un quaderno, racconti, cose di fantasia ispiratemi da quello che accadeva intorno.

Erano anni dove tutto faceva ancora senso, anni dove tutto sembrava ancora nuovo e ancora da provare. Le emozioni non erano sciupate e la risata era ancora genuina. La scuola e i suoi impegni era la cosa dalla quale fuggire, rifugiandosi nelle fantasie della scrittura: non era così facile allora reperire film e musica che non venissero dalla televisione, e anche lì c’era una scelta molto limitata rispetto a oggi. Quindi quello che rimaneva era, nella tradizione dei bambini a cui non hanno comprato troppi giochi, inventarseli! E già che si era lì, inventarsi interi mondi, dei film scritti perché la fantasia li girasse.

Giocavo a inventare realtà diverse, non necessariamente meno vere di quelle esistenti, ma semplicemente diverse, prendevo spunto da un avvenimento, o anche una piccolissima visione o intuizione, che dir si voglia, e ci creavo intorno un intero mondo bellissimo nel quale tutto era giusto, tutto era come doveva essere. Non ci ragionavo su troppo, stavo solo lì, e ogni frase ne chiamava un’altra, e un’altra e un’altra fino alla fine del racconto. Poi lo rileggevo e mi stupivo sempre di averlo scritto io. Perché succedeva sempre una cosa molto strana, un po’ come succede quando leggi, ma molto più forte: io vedevo le cose nella mente, vedevo le strade, i palazzi… le stanze di cui scrivevo, le vedevo. E i personaggi, con le loro espressioni che a ricordarle oggi mi pare ieri.

Vedevo tutto molto chiaramente, quei mondi che io stesso avevo creato si erano trasformati in ricordi, che avrei potuto benissimo confondere con i miei se non fosse che erano troppo particolari. Ma quei personaggi, quelle ambientazioni rimanevano familiari, e non so come, mi facevano venire voglia di scrivere ancora.

Mi veniva dato un enorme potere, quello di creare mondi e di viverci dentro: perché io passeggiavo intorno a quelle stanze, vedevo quello che i personaggi vedevano, pensavo quello che pensavano, sentivo cosa sentivano e insomma toccavo con mano come se fossero miei ricordi, mie sensazioni, miei sentimenti, tutto quello che veniva scritto.

Non ero io a scrivere. All’inizio credevo di sì, ma dopo molti anni ho capito che non siamo mai noi a fare le cose migliori che facciamo. È una cosa che molti chiamano “ispirazione”, alcuni “intuito” e altri in tanti altri modi… ma alla fine si tratta di diventare un tramite, un canale per energie superiori che agiscono attraverso di noi. Si tratta di raggiungere uno stato di quiete nella quale queste energie ci possono raggiungere perché il collegamento col divino è attivo. Ecco a cosa serve l’arte, per me. Serve a collegarci col divino, sia l’arte da spettatore che quella da artista.

Anche in questo momento non sono io che scrivo, è un’energia che fluisce attraverso di me e che sento e non intralcio. E tutto si fa da sé. Quando invece ci si sforza a fare non avendo questo collegamento superiore (chiamiamolo pure ispirazione, via) il risultato è penoso. La cosa necessaria è tenere viva quest’energia, poiché fintanto che siamo collegati con essa non ci mancheranno mai le cose interessanti da dire o da fare. E quando vediamo che questa ispirazione (chiamiamola pure concentrazione) viene ad affievolirsi, dobbiamo accettarlo e smettere di scrivere per riprendere in un secondo momento: è difficile tenere attivo questo collegamento per lunghissimo tempo, e bastano poche distrazioni esterne per intaccarne l’efficacia.

Tutto questo era per dire che scrivevo, e mi divertiva molto, era il mio modo per conoscere il mondo, conoscere me stesso, e riconoscevo che ero nel mio elemento, in uno dei tanti, come avrei scoperto più tardi. Ma di questo parleremo. Comunque, dicevo, la scrittura per me è sempre stata qualcosa di magico, qualcosa che l’essere umano ha padroneggiato a lungo raggiungendo vette altissime. Ma scrivere per me non è voler creare capolavori, molti ce l’hanno fatta prima di me con risultati eccelsi e non vedo perché dovrei imitarli. Scrivere per me è capire, capirmi, ed entrare di nuovo in quell’ottica del “bisogna essere se stessi”; ebbene, io sono me stesso quando scrivo: sono felice, sono nel mio, ed è una cosa che mi piacerebbe fare per sempre. Ecco perché vorrei tornare a scrivere seriamente, in questo sito pubblicamente personale: sono cose mie, ma che potete leggere anche voi. Questo è il patto, e così sarà: alcune cose le potete comprare, altre le potete leggere gratis, ma non è questo il punto. Il punto è di fare quello che ci rende felici, e io sono felice di prestarmi al divino perché scriva attraverso di me, è un modo per stare con lui. Ecco, chiaro e semplice come non avrei mai saputo dirlo io: L’arte è un modo per stare vicino alla divinità. Per accettarla in noi e per lasciare che ci conduca dove dobbiamo andare, dove si snoderà il nostro destino. Adesso, forse, ma forse, mi è permesso rivedere tutto questo testo da capo per vedere se riesco a renderlo un po’ più leggibile, questo me lo concedo. Però no, non c’e n’è stato quasi bisogno.

Allora continuo, è la mattina dopo. Nel frattempo, negli anni che sono trascorsi da allora, ho studiato per diventare attore, regista e pedagogo teatrale. Non so cosa mi ha portato fino a qui, fino a questo punto della mia esistenza, ma forse se è vero quel che ho scritto sopra, è vero in tutto: sono un ingranaggio del destino dell’umanità, e quel che mi guida è una forza che ne sa più di me e alla quale mi affido, poiché nel profondo riconosco che è tutto fatto per il mio bene, per il mio bene supremo. È quando ci rifiutiamo di adempiere al nostro destino che blocchiamo l’ingranaggio, e sentiamo qualcosa stridere lungo la via.

Quante volte lo abbiamo rallentato, questo macchinario perfetto, talmente perfetto che ha previsto il fatto che noi lo rallentassimo, e in cambio ci dà comunque incondizionatamente quel che abbisogniamo per la nostra crescita, anche se in modi inconsueti e inaspettati, ciascuno a seconda del proprio livello di comprensione, o di vibrazione energetica, che dir si voglia.

La gioia di esser vivo e di servire al gioco universale è qualcosa che ciascuno di noi deve tenere bene a mente, anche quando la situazione sembra buia, è il divino che sta cercando di mettersi in contatto con noi, qualcosa dentro di noi ci parla, se riusciamo ad ascoltare davvero: non parlo della vocina nelle nostre teste che pensa sempre a cose negative, catastrofi e morte. Parlo di un sentire, di qualcosa di inesplicabile a parole, quasi inafferrabile se non stiamo vigili. Questo sentire è una guida lungo il sentiero, per farci comprendere che se ci ritroviamo in una selva oscura, non dobbiamo aver paura di attraversarla, poiché in fondo c’è il paradiso. E ci sarà sempre qualcuno in nostro soccorso, fosse anche noi stessi, che siamo il miglior soccorso che ci possa essere. L’importante è essere se stessi, che in definitiva non vuol dire che possiamo fare tutto quello che ci passa per la mente: essere se stessi vuol dire partecipare al gioco universale, rendersi disponibili alla vita senza riserve, senza paura, in modo che il divino possa giocare a sperimentare l’universo attraverso il nostro punto di vista unico e inimitabile.